Pelagie Mediterranee. Pace – Lavoro – Ambiente – Cultura – Comunità

Pelagie Mediterranee vuole essere un movimento politico e culturale che si pone come obiettivo quello di rivoluzionare la storia e il destino dell’arcipelago siciliano.

La storia delle Isole Pelagie è una storia mediterranea, è una delle molteplici storie delle civiltà del Mediterraneo; al tempo stesso la pluralità delle storie mediterranee incrocia, interseca e contribuisce a definire la concreta storia delle Isole Pelagie. Per salvare queste isole e le loro comunità occorre dunque pensare come cittadini mediterranei. Occorre ripensare le sorti e le prospettive del Mediterraneo e delle sue storie, dei confronti tra le sue culture, dell’intreccio tra le sue civiltà. Salvare le Pelagie è possibile solo invertendo la rotta fallimentare che da anni si sta seguendo. Salvare le Pelagie è possibile solo producendo una storia nuova che sia espressione di un Mediterraneo plurale, in grado di collocarsi entro le nuove sfide del nascente mondo multipolare. Dalle Pelagie e dal Mediterraneo può prendere piede un percorso in grado di salvare anche l’Italia intera dalla sua devastante crisi. Quanto detto per le isole Pelagie, infatti, sul loro respiro Mediterraneo, può essere fatto valere, sia pure entro un discorso più ampio e complesso, anche per l’Italia. Schiacciata e asservita alle oligarchie politiche e finanziarie dell’Unione Europea, solo riscoprendo e rideclinando il proprio ruolo mediterraneo di “ponte” sospeso tra Est ed Ovest, tra Nord e Sud, il Paese potrà riabbracciare una tendenza storica che non sia di declino e di guerra, bensì di pace e di sviluppo. Bisogna far nascere e dare nutrimento a relazioni culturali, economiche, e politiche interne al bacino mediterraneo che rifiutino la guerra di supremazia voluta dall’occidente atlantista, dalla Nato e dall’Unione Europea e sappiano invece collocarsi in un orizzonte nuovo, quello di un mondo non schiacciato dall’imperialismo statunitense, dall’egemonia del capitalismo finanziario con la sua antropologia di distruzione dell’umano e del pianeta. Occorre impegnarsi per un mondo di relazioni paritarie e di reciproco vantaggio tra i paesi e i rispettivi popoli.

Il modello sociale, culturale, economico, antropologico portato avanti dal neoliberismo da ormai quattro decenni a questa parte, ha annientato i diritti e le garanzie di civiltà che nel secondo dopoguerra i gruppi sociali subalterni organizzati erano riusciti ad affermare, grazie ad una lunga stagione di aspre lotte e di duro impegno. L’attuale classe politica nazionale persegue un disegno di ulteriore inasprimento del modello neoliberista: da un lato siamo sempre più una colonia degli Stati Uniti, mercato di riserva funzionale alle esigenze delle contraddizioni commerciali del sistema statunitense, sacrificando il sistema produttivo nazionale sull’altare della subalternità ai padroni a stelle e strisce. Dall’altro lato si smantellano i sistemi sanitario e scolastico, si continua ad impedire la spesa pubblica e ad inasprire l’impoverimento della classe lavoratrice e i tassi di sfruttamento del lavoro. Tutta la classe politica nel suo complesso ha dimostrato, negli ultimi quarant’anni, che al di sotto di un’apparente e costante contrapposizione mediatica e litigiosità data in pasto alle narrazioni mainstream, condivide interamente le linee guida e le visioni del capitalismo finanziario e delle oligarchia neoliberali. La politica italiana ha da tempo perso la reale e concreta autonomia decisionale nell’indirizzo strategico del Paese. Si è ridotta ad un circolo di inetti e spesso di incapaci, molte volte ricattabili, che ratificano ed eseguono decisioni e linee di indirizzo decise già altrove, laddove la consapevolezza del popolo e men che meno il suo voto, non sono in grado di arrivare.

Occorre battersi per un equilibrio sociale in cui gli strati sociali popolari, chi vive del proprio lavoro, possano essere il pilastro del Paese, di una collettività in cui vengano riconosciuti diritti fondamentali che non si trasformino in merci da vendere ed acquistare: il diritto al lavoro garantito e sicuro, il diritto ad un salario dignitoso, il diritto alla salute, accessibile e gratuita, all’istruzione, ad un ambiente sano, a dei trasporti pubblici efficienti, ad un adeguato tempo di vita libero dal lavoro, perché l’essere umano non si trasformi in una bestia da soma per l’arricchimento di pochi.

Un programma del genere è ambizioso e siamo consapevoli che non potrebbe delinearsi in tempi brevi. Occorre guardare avanti con uno sguardo ampio, in grado di abbracciare orizzonti temporali estesi. Stiamo assistendo a svolte epocali di portata storica e di fronte a tali dinamiche i mutamenti si dispiegano su tempi inevitabilmente lunghi. Siamo consapevoli che la sfida che ci sta dinnanzi è quella di contribuire a formare una nuova classe dirigente locale in grado di sapersi collocare entro l’epocalità che stiamo vivendo, consapevole delle linee di tendenza di lungo termine che vive il nostro tempo, dei processi di ampia portata dentro cui ci ritroviamo ad agire, ma al tempo stesso in grado di dare risposte concrete alle sfide più immediate e a breve termine.

Non abbiamo nessun referente politico sul piano nazionale ma siamo aperti al dialogo con tutte quelle realtà che, volendo cambiare radicalmente le comunità e i territori, condividano l’esigenza di una radicale soluzione di continuità con la governance neoliberale, condividendo anche l’esigenza di rifondare l’equilibrio sociale del Paese su un nuovo protagonismo degli interessi sociali subalterni organizzati.

La prima questione che dovremo affrontare qui nelle nostre Isole è quella relativa all’utilizzo militare e carcerario delle Isole Pelagie; tale destinazione militare e carceraria è stata portata avanti dai governi e dai più disparati comitati di affari, nazionali e internazionali, sin dalle colonizzazioni del diciannovesimo secolo. I processi politici ed economici di “globalizzazione” con cui si è espressa la restaurazione neoliberale a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, insieme con la fine della guerra fredda e dei suoi equilibri internazionali e con l’avvento dell’unipolarismo americano e della sua guerra permanente al servizio degli interessi dell’impero, hanno generato guerre, latrocini, sfruttamento dei lavoratori, inquinamento e condizioni economiche che hanno fatto sì che un numero crescente di persone nel mondo abbandonasse il proprio paese. La restaurazione neoliberale in Europa si è espressa attraverso il processo di unificazione europea, il delinearsi dello spazio di mercato comune europeo e di una serie di accordi che (oltre a minare alla basi l’autonomia politica ed economica dei paesi membri, favorendo così l’instaurarsi quasi “naturale” di politiche di classe a sfavore del lavoro e delle classi popolari), hanno gettato le basi per la creazione di clandestinità. Impedendo quasi del tutto una circolazione regolare, infatti, i migranti sono stati fatti diventare inevitabilmente “clandestini”; grazie a normative, leggi, regolamenti, accordi, scientificamente pensati e strutturati dalle classi dirigenti europee e nazionali (le stesse che poi periodicamente chiedono il voto dicendo di voler fermare o di voler salvare coloro che sono stati messi nelle condizioni di clandestinità proprio da chi sta chiedendo di venire rieletto), le masse umane prodotte dagli squilibri dovuti al mondo unipolare egemonizzato dagli USA e dal modello neoliberale sono state fatte diventare merce. Merce da sfruttare sui mercati del lavoro, direttamente nel processo produttivo, in quanto lavoratori privi di diritti e spesso in nero; merce da sfruttare per favorire la deflazione salariale e l’abbassamento dei diritti e delle garanzie dei lavoratori in generale; merce da sfruttare per l’industria dell’ “accoglienza” e per il comparto militare-industriale, che si è arricchito vendendo mezzi e sistemi di controllo indispensabili per l’economia delle frontiere dell’emergenza indotta continua.

Ciò che lascia stupefatti dopo decenni in cui la questione migrazione sembra occupare costantemente un posto di primo piano dell’agenda politica italiana ed europea, è osservare la totale assenza dalle narrazioni dominanti del punto di vista dei migranti. Si parla sempre dei migranti e sul loro conto, senza che siano mai i loro punti di vista a venire legittimati, a trovare spazio. Il colonialismo europeo trova le forme più diverse per riaffermarsi e mantenersi attivo.

In una forma analoga, simile ma non identica, le narrazioni dominati sull’isola di Lampedusa hanno il carattere dell’eterodirezione: non lasciano emergere un punto di vista della comunità locale, coi suoi problemi, con le sue contraddizioni, coi suoi limiti. Al contrario da anni ci si affanna a far diventare Lampedusa l’isola di qualcosa (degli sbarchi, dell’accoglienza, dei razzisti, degli eroi….) favorendone così un uso ed un abuso politico delle rappresentazioni che la riguardano, funzionali a nascondere le reali dinamiche in gioco, funzionali a tenere in ombra quanto realmente si muove al di sotto delle retoriche e delle telecamere cieche dei tg.

Lampedusa è stata abusata a partire dai primi anni novanta divenendo un laboratorio di sperimentazione sociale e politica, un’isola carcere e militare, luogo di creazione di emergenze e passerella mediatica. La comunità locale non ha mai deciso nulla, non ha mai avuto voce in capitolo. Le è stato imposto e continua ad esserle imposto un destino di sfruttamento politico, mediatico, militare, attraverso un’iperesposizione mediatica che stride sinistramente con la totale esautorazione di qualiunque possibilità di decidere sul proprio territorio, sul proprio equilibrio sociale, paesaggistico, ambientale. Oggi sull’isola di Lampedusa abbiamo una quantità di corpi militari, caserme, radar e mezzi militari a dir poco impressionante e questa tendenza non accenna ad arrestarsi. La sfida della smilitarizzazione dell’isola e della fine del suo utilizzo come carcere è una sfida storica che non si può esaurire con una generazione ma si deve radicare nelle coscienze degli isolani e deve diventare il primo punto di ogni azione politica.

Questo aspetto deve necessariamente andare a braccetto con la cura delle nostre isole. La tutela del paesaggio, della salute, della cultura e della storia dell’isola devono diventare le linee guida per ogni amministrazione comunale e per ogni settore e categoria della comunità. Il turismo stesso deve diventare una forma di resistenza e deve cambiare in maniera sostanziale la sua ragione di essere: da una forma di sfruttamento del territorio e di competizione sfrenata deve diventare strumento della tutela dell’isola oltreché la porta della cooperazione internazionale. La pesca deve diventare il volano per la tutela del mare e delle creature che lo abitano e non la macchina distruttrice delle meraviglie marine.

Dobbiamo aspirare alla gestione diretta dei servizi di base come la produzione e la distribuzione dell’energia elettrica, la dissalazione e la distribuzione dell’acqua, la gestione del ciclo dei rifiuti. Tutto ciò sarà percorribile, non senza difficoltà, solo se avremo chiara la nostra dimensione mediterranea: se sapremo cioè mantenere un dialogo costruttivo all’interno della comunità così come al suo esterno, sapendo guardare a tutte le realtà nazionali e culturali del mediterraneo che aspirino come noi alla creazione di uno spazio politico e culturale nuovo, che sappia raccogliere la sfida di collocarsi entro un secolo che sarà quello del multipolarismo. Uno spazio culturale mediterraneo, dunque, che abbia come fondamenta il rifiuto delle guerre, dello sfruttamento degli altri esseri e delle risorse naturali, degli atteggiamenti e delle pratiche mafiose, del razzismo e del fascismo.

Vogliamo costruire un mediterraneo di pace, dialogo, cultura e bellezza. Senza la partecipazione attiva di tutti non potremo realizzare nulla di tutto questo.

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